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Concert Review

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Ve lo immaginate Lorenzo «Jova» Cherubini suonare in un club, la sera, con la gente che gli gira attorno e ordina una birra, gli amici che chiacchierano e che solo di tanto in tanto prestano orecchio a quello spilungone sorridente che mette in fila parole e note giocando con l’italiano e l’americano? Ve li immaginate Subsonica e Negrita abbandonare le piazze gremite e i teatri e tornare ai tempi dell’Hiroshima di Torino o dell’Alcatraz di Milano? Per chi li ha visti, ve lo assicuro, è una meravigliosa madeleine musicale, ma per loro è un gesto di grande coraggio e umiltà. Francesco Del Maro, l’uomo che in questi giorni sta portando in giro per gli Stati Uniti l’Hitweek Festival, che oltre ai Subs e alla band di Pau e Drigo comprende il romano Alessandro Mannarino e i salentini Boom Da Bash, dice: «Anche quelli che da noi riempiono i palazzetti dello sport in America devono mettersi in testa di ricominciare da zero, dalle serate dove le persone, se va bene, si contano a centinaia, non a migliaia. Per questo lavoriamo molto con le associazioni culturali o con le università. Portiamo gli artisti a incontrare gli studenti, che poi possono entrare gratuitamente al concerto semplicemente mostrando il tesserino universitario. È dura. Ma i frutti, alla lunga, si vedono».

E infatti, chi ha incominciato a raccoglierli è Lorenzo Cherubini il cui concerto al Terminal 5, un locale da tremila posti distribuiti su quattro livelli, a Hell’s Kitchen, a qualche centinaia di metri dall’Hudson, viene annunciato da un lungo articolo del New York Times e fa il tutto esaurito. Sì, è vero, tanti genitori con figli in vacanza nella Grande Mela, tanti studenti italiani della Columbia e della NYU, tanti trentenni emigrati per motivi di lavoro, un numero imprecisato di amiche cinquantenni, ma tra loro anche gli americani, i germogli di un pubblico in costruzione. All’entrata controllano i documenti. Allacciano un braccialetto arancione al polso dei maggiorenni e solo chi ce l’ha potrà acquistare alcolici al bar. Una ragazza americana accanto a me scrive un messaggio a un’amica: «Wouldn’t believe where I am right now: at a Jovanotti Concert with a bunch of Italians». La serata comincia con un assolo di Saturnino. Il pubblico apprezza e applaude. Jovanotti entra roteando come suo solito: «Sono contento - urla - . Si vede che sono contento?». Regala i pezzi migliori, una versione dignitosa de L’uomo in frack di Modugno e una sorprendete di Empire state of mind, l’inno tutto newyorchese di Jay Z e Alicia Key. E alla fine anche il pubblico è contento, non solo lui. Stesso entusiasmo ieri, a Austin, Texas. «Avete presente trovarsi di fronte a 30 mila persone tra cui pochissimi ti hanno sentito nominare? - scrive su Facebook - Li abbiamo stesi, yes, li abbiamo fatti ballare».

Tre giorni dopo Mannarino, Negrita, Subsonica e Boom Da Bash (in ordine di apparizione sul palco) atterrano a Manhattan per conquistare l’Highline Ballroom, un club da settecento posti nel Meatpacking district, sulla sedicesima strada. Si trova praticamente sotto l’High Line, il recente miracoloso parco lineare realizzato al posto di una ferrovia sopraelevata in disuso. L’atmosfera è diversa da quella del concerto di Lorenzo. Il pubblico ventenne e trentenne è simile ma niente amiche «mogli di funzionari delle Nazioni Unite», niente famiglie con ragazzini. C’è molta più sensualità nell’aria. La vibrazione colpisce il basso ventre. Alessandro Mannarino è bravo e soprattutto è accompagnato da una band strepitosa che sa come scaldare il pubblico. Pau dei Negrita si dona con generosità, come se avesse di fronte uno stadio intero. «Non molta gente, ma ottima accoglienza - commenterà poi su Twitter - . Grazie Italians».

I Subsonica se la giocano infilando uno dietro l’altro tutti i pezzi più ritmati e io, personalmente, faccio un salto nel tempo di quindici anni e mi ritrovo a Torino, nel maggio del 1997, al Barrumba. Invece no; sono a New York. E forse, nel maggio del ’97, nemmeno Max Casacci e soci immaginavano che un giorno avrebbero portato la loro musica così lontano. «Tra le facce sorridenti della Ballroom - commenta Casacci - si notavano anche le espressioni serie e attente di alcuni newyorchesi azzimati con aria da intenditori. In situazioni come questa vedi ragazzi italiani in fuga, sudati e contenti di poter dimostrare agli amici autoctoni che la musica italiana non è solo pop». La serata all’Highline si chiude tardi, è martedì sera, il giorno dopo molti devono andare a lavorare, ed è un peccato per i Boom Da Bash, ultimi a salire sul palco, che si ritrovano la sala mezza vuota. Chi resta a sentirli, però, ne esce con l’impressione secca, netta, che la musica italiana resta, ora e sempre, un grandioso biglietto da visita per la nostra cultura e che bisognerebbe investire con coraggio nella sua diffusione all’estero.

«Quando abbiamo cominciato a portare gli italiani negli Stati Uniti, sei anni fa, il tour ce lo siamo completamente autofinanziato - racconta Francesco Del Maro - . Ora, invece, vedendo i risultati, sono entrate a far parte del progetto le istituzioni locali come Puglia Sound e la Camera di commercio di Torino e quelle nazionali come il Ministero dello sviluppo economico e la Fimi. È importante, per noi, sapere che non siamo gli unici a crederci». Ed è importante, per tutti noi, sapere che la nostra musica è viva.

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